sabato 13 settembre 2008

Un pollo da spennare

Un pollo da spennare

Faccio entrare?

Esordì la collega, conscia che la mattina quella sua voce squillante, era una doccia gelida sui miei sonnolenti pensieri.

Ok! Facciamoci la croce stamattina, avanti il primo pollo.

Risposi con rassegnazione. I polli logicamente erano i clienti, avevo incominciato a chiamarli così, perché sembravano tutti polli spennati dopo aver pagato l’onorario

Ma per spennare un pollo bisognava catturarlo, e quello era il mio ruolo, io ero lo specchietto per le allodole, la così detta trappola.

All’uscio della porta apparve un uomo sulla settantina, basso e panciuto, sguardo simpatico e vissuto, mi alzai mentre con un sorriso di benvenuto gli spostavo la sedia per farlo accomodare.

Si accomodi pure, sono tutta orecchie!

Classica battuta, che riusciva sempre a strappare un sorriso e a far sentire le persone a loro agio, faceva ridere persino me che la ripetevo da anni, mi ricordava le diatribe sulle mie orecchie a casa, per mio padre le orecchie grandi erano segno di lunga vita e si dovevano mostrare con orgoglio, per mamma era un antiestetico difetto da tenere assolutamente coperte.

Per me??? Bhee, io a volte le scoprivo e altre volte le coprivo, dipendeva da come volevo apparire, longeva o carina.

Signurì , scusate ma come vi chiamate?

Esordì l’anziano signore:

Mi chiamo Cleo.

Era inutile dire ai clienti il mio nome per intero Cleonice, lo dovevo ripetere varie volte e difficilmente lo ricordavano, mentre Cleo era di facile comprensione.

Allora Clea…io vi volevo dire…

Lo interruppi, perché già il nome era incompleto, ma così me lo storceva completamente.

No mi scusi - Cleo, con la - o - finale.

Cleo????? Ma è un nome da maschio finisce con la o, mi dovete scusare ma voi siete femmina ed io vi chiamerò Clea.

Vabbene chiamatemi Clea.

Dissi con un sorriso rassegnato.

Clea dovete sapere che io ho sempre lavorato per la mia famiglia, ho costruito case e case, e nel lavoro ho perso tre dita.

Ok, dissi sino a qui ci siamo, siete un lavoratore e si vede.

Infatti di velleità in quell’uomo non c’era nulla, abiti semplici e consumati, viso arso e riarso dal sole per le troppe ore passate nei cantieri, ma il tutto acceso da occhi brillanti e vivaci..

Ecco mia cara Clea io possiedo un loculo a sei piani, a mia morte vorrei assegnare ad ognuno un piano.

Vabbene prendo carta e penna, voi ditemi a chi volete assegnare i piani.

Clea l’ultimo piano voglio che vada a mia moglie, il piano più alto. Hai segnato bene? Quello più alto.

Questo suo raccomandarsi attrasse la mia attenzione, ed immediatamente il cuore mi si riempì di stima nei confronti di quest’uomo: “Voleva mettere la moglie al piano più alto per metterla più vicino al cielo, più a contatto con Dio, quanta delicatezza in quelle sembianze tanto rozze”.

Benissimo allora alla signora diamo l’ultimo piano, e per voi che piano vi riservate?

A me il terzo piano!

E continuò così attribuendo ad ogni membro della famiglia un piano preciso.

Alla fine della stesura del testamento perché di testamento si trattava, incuriosita per la disposizione dei loculi chiesi:

Ora toglietemi una curiosità, perché a voi il terzo piano e a vostra moglie il sesto.

Clea alzatevi all’inpiedi.

Io mi alzai e lui mi venne incontro dicendo:

Quando entrate al cimitero il loculo al terzo piano è quello ad altezza di occhi, è facile metterci i fiori, non bisogna prendere la scala, e neppure calarsi, fateci caso i loculi alti sono sempre senza un fiore. Ora avete capito perché voglio che a mia moglie vada l’ultimo piano?

Restai senza parole, non potevo pensarci, quell’uomo era venuto a spendere dei soldi, solo perché voleva dopo la morte fare un torto alla moglie. A nulla valsero le mie parole, atte a dissuaderlo:

Non vi fate il sangue amaro, dopo la morte Dio ci pensa?

Ma lui era irremovibile.

Clea scrivi, stai a sentire a me, al sesto piano, non deve avere un fiore.

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